NUOVI PARADIGMI SONO NECESSARI…
RICORDO DI ETTORE GELPI

Il 22 marzo 2002, Ettore Gelpi ci ha lasciato. Era nella sua casa di Parigi: da tempo era malato ma si era lontani da immaginare un epilogo così improvviso e tragico. Ma Ettore era imprevedibile. Un uomo sempre in movimento e sempre così disponibile a darsi. E a sorprenderti.

La sua natura acuta e curiosa lo portava a tessere una grande varietà di esperienze e relazioni: ha lavorato per l’Unesco, collaborato col mondo sindacale, con le università di mezzo mondo, si è occupato di formazione degli adulti quando ciò significava fare un lavoro sociale rischioso, ha scritto una storia della pedagogia, ha animato e guidato associazioni educative. Nel suo ultimo libro “Futurs du travail” (2001) ha voluto che si scrivesse, nella presentazione dell’autore: “Ama la scherma, il pattinaggio su ghiaccio e nuotare”. Già Ettore si presentava dicendo, di essere di nazionalità “terrena”, di essere un uomo del mondo ed era capace, grazie alla sua sensibilità per il pensiero critico, di alimentare il pensiero e l’azione pedagogica con l’attenzione per i processi sociali, economici, storici.Senza mai scordare la soggettività. Da tempo stava studiando il fenomeno del rapporto tra educazione e globalizzazione. Lo faceva a suo modo, niente affatto libresco, scrivendo anche libri, ma soprattutto viaggiando, promovendo seminari, convegni. Con la Federazione Internazionale dei CEMEA, della quale era Presidente dal 1997 stavamo progettando un Forum Internazionale per il 2003 proprio sul tema “L’educazione al tempo della globalizzazione”.. A febbraio mi annunciò che difficilmente avrebbe potuto essere in maggio a Torino per un convegno preparatorio e mi diceva: “Nuovi paradigmi sono necessari per una riflessione sull’infanzia. Perché consideriamo i bambini sempre come dipendenti quando, molto spesso, lavorano, partecipano alle guerre, sono obbligati a prostituirsi? Sarebbe necessario ascoltarli e discutere con loro del proprio futuro….. Di qui potrebbe partire una nuova riflessione ed un nuovo modo di agire”. Purtroppo non ci sarà ed a noi resta un dolore senza “cognizione”: la morte non gli rassomigliava affatto. Forse è per questo lo vogliamo ricordare attraverso due brevi “riletture” che possano restituirci la sua vicinanza. Ciao, Ettore.

Dal convegno “Il novecento pedagogico” – Torino, 24 e 25 maggio 2000

“Il mio primo rapporto con i C.E.M.E.A. risale al 1955 quando in uno stage a Sermoneta, con Cecrope Barilli, cercarono di farmi superare i limiti che paralizzavano il mio corpo: mi fecero ballare, cantare. I C.E.M.E.A. mi hanno fatto capire che non si educa solo la testa, ma un insieme formato dal corpo e la testa. Si considerava il corpo e la testa come uno spazio ecologico. Siamo in un periodo di monocultura, siamo invasi da prodotti esterni… Stiamo vivendo dei momenti educativi e culturali difficili. Abbiamo la possibilità ed i mezzi per fare cose bellissime eppure c’è la contraddizione di essere dentro ad una monocultura. Una monocultura a livello planetario. Ma io sono molto fiducioso nell’uomo e che penso che si possa uscire da questa situazione. Le rivoluzioni industriali possono portare delle cose positive ma anche delle cose negative. Questi processi dinamici ci portano indietro ma anche in avanti, l’educazione oggi deve confrontarsi con questo perché ci troviamo in una situazione che né gli educatori nè i sociologi del Novecento non potevano anticipare.
Di recente sono andato a incontrare una persona che è stato uno dei nostri grandi padri con De Bartolomeis e Borghi. Mi riferisco a Visalberghi: nei momenti duri della pedagogia hanno detto delle cose che contavano. Visalberghi è un riferimento importante della riflessione pedagogica. E’ un uomo non ortodosso, un riformista.
Per me poi è molto importante un personaggio come Freud, che indubbiamente influisce molto sulla pedagogia del Ventesimo secolo… Poi c’è Carl Marx che ha dei momenti “ondeggianti” perché si occupava di lavoro, ma suo genero si occupava dell’ozio e penso insieme costituiscano un riferimento importante del lavoro e dell’ozio. Ma questi sono personaggi che stanno nella nostra dimensione della logica occidentale. Esistono molte altre persone nel Terzo Mondo che hanno anticipato delle cose molto importanti sulle quali dobbiamo lavorare ora, soprattutto perché molti dei vostri colleghi o studenti lavoreranno in relazione a questo Terzo Mondo e se voi non conoscete nulla di ciò non potrete andare avanti…. Il Novecento ci ha detto anche che i movimenti educativi non possono essere solo individuali ma sono anche collettivi, alcune volte attorno a movimenti che ci sono associazioni come ad esempio i C.E.M.E.A. e altri movimenti che magari non hanno nulla a che vedere con il movimento pedagogico ma sono dei grandi movimenti.
La pedagogia è importante, l’educazione è importante però anche la cultura è importante. Relazioni internazionali e globalizzazione stanno uccidendo l’educazione, in molti Paesi non c’è la possibilità di avere insegnanti, aule. Penso che per noi sia importante riflettere sul lavoro, ma non come “formazione professionale”, bensì come fatto culturale, come fatto di esperienza…

Dal convegno “L’eredità di John Dewey”, Torino 30 e 31 gennaio 1998

“L’educazione non è solo l’educazione che supplisce ad una mancanza, ma è educazione permanente.Troppo spesso l’educazione è ridotta ad uno strumento per “colmare delle lacune” quantitative e dimentica l’impegno per una ricerca permanente e globale. Non basta insegnare ad un operaio un po’ di tecnologia in più per migliorare la sua condizione di vita. La democrazia passa attraverso questa inversione di tendenza del sistema formativo occidentale:educazione come fatto inserito in un contesto economico e sociale, e al tempo stesso come critica di questa stessa realtà. Il grande rischio è di creare forme di coscienza incapaci di assumere il proprio contesto: e quindi rendere impossibile ogni superamento dialettico. Il sistema ne esce sempre benissimo restando protetto in una dialettica interna. Al contrario, per un immigrato, ad esempio, va promosso il diritto di assumere nelle sue pratiche educative la sua lingua e nello stesso tempo egli deve poter entrare criticamente nella società in cui si è inserito ed ha diritto di vivere.

Cooperazione e non competizione. Oggi noi siamo bombardati da messaggi del tipo: “educhiamoci, aggiorniamoci perché dobbiamo competere sul mercato”. Viene così privilegiata un’educazione non certo “individualizzante”, ma al contrario vengono promosse delle pratiche educative molto individualistiche.

Educazione è produzione culturale: l’educazione non è solo ascoltare, apprendere, ma anche produrre messaggi. La formazione non può essere solo per la produzione, ma deve essere impregnata di linguaggio, di comunicazione e di filosofia. Educare per la modernità: sì. Educare per la scienza e la tecnologia: sì. Ma per lo sviluppo della società e degli individui e non per l’esclusione. La modernità deve poter diventare un concetto a cui tutti contribuiscono. Si pensi al valore che assumerà per noi la presenza e o scambio con il pensiero arabo, cinese, africano. La modernità non è solo cosa del “secolo dei Lumi” di cui noi siamo figli.Modernità, quindi, per l’inclusione e non per l’esclusione, modernità di tutti e non solo del miliardo di bianchi che tendono a dominare la cultura del pianeta.

Il lavoro e la cultura come dimensione educativa: ciò significa non restringere il lavoro al concetto di “impiegabilità”. E’uno dei concetti più pericolosi che stanno circolando anche nella cultura della sinistra europea. Non si dimentichi, infatti, che avere “l’impiegabilità” non vuol dire ancora avere un impiego. Il rischio è di ingannare le persone. L’educazione va vista come componente della creazione di uno spazio pubblico di diritti: si educa per ottenere più diritti, e non solo per la produzione.

Tutti gli adulti sono educatori: è un concetto che non piace ai reazionari, ma neppure a molti progressisti. Se non entriamo in questa prospettiva che mette tutti potenzialmente in una posizione di responsabilità e di ricerca creativa faremo sempre e solo dell’educazione per adattare: saremo soltanto degli “adattatori”. Tutti devono “poter essere educatori”.

E dentro tale quadro, e con questo concludo, sta anche il concetto, per me fondamentale, di “apprendere a disapprendere”. Oggi viviamo in una società in cui è bene disapprendere certi concetti: si pensi al razzismo. Se chiediamo alla maggior parte degli insegnanti se “la razza esiste” rischiamo una risposta affermativa. Temo che anche gli antirazzisti lo pensino. Ed indirettamente anche tanti programmi della Comunità Europea lo confermano….

Nota bibliografica
Ettore Gelpi era professore ospite in diverse Università europee e dell’America Latina. Era anche Direttore di Dottorato all’Università Parigi I Sorbona. Tra la sua sterminata produzione saggistica ricordiamo: Storia dell’educazione (Vallardi, Milano, 1967); Scuola senza cattedra (Ferro, Milano, 1969); Lifelong Education and International Relations (Croom Helm, Londra, 1985); Conscience terrienne: recherche et formation (Mc Coll, Firenze, 1996); Trabajo, Educacion y Cultura (Nau Libre, Murcia, 1995); Educazione degli adulti (Guerini, Milano, 2000); Futura du travail (L’Harmattan, Parigi, 2001).

A cura di Stefano Vitale