LA SCUOLA DELL’ATTIVITA’ DI IERI E OGGI
di Stefano VITALE – CEMEA Convegno FNISM Federazione Nazionale Insegnanti
Sezione di Torino “FRIDA MALAN” su Mano↔Mente. L’interazione fra operatività e intelligenza nell’esperienza umana (2014).

PREMESSA

Il compito che mi è stato assegnato è, oltre che di proporre una riflessione specifica sul tema, di tracciar un quadro concettuale e storico.

Per prima cosa credo si debba sottolineare l’esigenza di invertire il processo di evaporazione della manualità e della corporeità, della vita pratica. Noi stiamo parlando di mente e mano, di lavoro intellettuale e lavoro manuale: dimensioni che oggi comprendono non solo la questione del lavoro pratico produttivo in sé ma più in generale la questione della presenza della corporeità, della dimensione della fisicità, della realtà e dell’esperienza reale nella formazione e nell’educazione.

Altra questione: i bambini della nostra società vivono sommersi da un mare di oggetti. E’ il frutto del consumismo, si potrebbe dire con una formula.
Sono oggetti degli adulti, oggetti domestici, oggetti maschili e femminili. Oggetti dei bambini, in particolare i giocattoli, oggetti educativi, oggetti decorativi, oggetti antichi e contemporanei. Oggetti d’arte, di tradizione popolare, di lusso opposti a quelli dei mercatini, oggetti industriali, oggetti di serie, di importazione, esotici, manufatti. Oggetti utili e funzionali. Altri totalmente inutili, paccottiglia. Poi ci sono oggetti iniziatici, simbolici, sacri. Ci sono oggetti che servono per curarci…
Gli oggetti arredano gli spazi nei quali viviamo e nei quali i nostri bambini crescono.
Poi ci sono gli oggetti tecnologici che ci condizionano molto, che usiamo molto spesso senza sapere né come funzionano veramente né da dove vengono, come sono stati costruiti. Emerge una sempre più grande ignoranza dei processi materiali. La cultura materiale ci sta sfuggendo.
Ed allora, scusate il passaggio repentino, ben vengano esperienze e proposte come quelle di Carlo Petrini, ad esempio che con il suo Slow Food, con Terra madre ci ripropone la ricchezza della cultural materiale.
Il fatto è che nello svanire della coscienza della cultura materiale, svanisce anche la cultura che sta dietro quegli oggetti, quei processi. E non ce lo possiamo permettere.

Veniamo al tema pedagogico: “Una cosa prodotta da un bambino non è qualcosa di esterno al bambino stesso. Essa contiene un po’ di lui stesso, ha il suo marchio e non solo la sua firma. Ogni oggetto prodotto comporta qualcosa di lui proprio nel senso di un dono di sé. L’oggetto fabbricato supporta, contiene, trattiene il dono che il bambino fa” (Tony Laine).
Nella mia esperienza di formatore ho potuto constatare dell’attaccamento che uno stagiaires manifesta verso un oggetto da lui stesso realizzato. E’ come se l’oggetto rappresentasse un suo doppio. Mostrandolo agli altri egli mostra se stesso. Guardandolo, vede se stesso. Quando gli stagiaires partono, non è raro assistere a due fenomeni possibili: quell’oggetto è reclamato e dunque portato via, quell’altro è abbandonato. Gli oggetti che vengono considerati “riusciti”, che rappresentano qualcosa saranno desiderati dal loro autore mentre quelli poco considerati sono dimenticati.

“L’oggetto non solo una massa materiale: esso porta in sé un significato culturale. Si tratta di un segno visibile d’un mondo d’intenzioni, di idee che gli uomini coltivano su se stessi.”. L’oggetto è un testimone indispensabile per la comprensione della storia degli uomini. Gli oggetti archeologici fanno rivivere i mondi antichi ed ancora meglio se li troviamo in luoghi in cui erano presenti degli esseri viventi. Questi oggetti assumono così una dimensione importante diventando dei segni della nostra umanità.

“L’oggetto descrive una civiltà” (M.Mauss).
Spesso esso contiene in scala ridotta i caratteri essenziali della società che l’ha visto nascere e che l’ha determinato. In effetti un quadro Inuit non somiglia affatto ad un’immagine della cultura cinese antica. Ciascuno porta con sé il suo marchio distintivo ben al di là della semplicità tecnica. L’oggetto contiene anche il carattere del suo autore. La maggior parte di noi sa riconoscere un quadro di Matisse o di Picasso, un fumetto di Hugo Pratt anche senza leggere la firma.

IL PANE DI ALESSANDRO

Vorrei ora raccontare un piccola storia significativa. Lo scorso anno, durante la “Settimana di Autogestione” della scuola, settimana in cui gli studenti proponevano e gestivano alcune lezioni e laboratori, Alessandro V., studente di terza liceo, ha gestito un Laboratorio di panificazione. Insomma gli studenti hanno imparato a fare il pane. E da quel che ne so, è stato il laboratorio più apprezzato e seguito. Un laboratorio che ha visto i ragazzi molto impegnati, motivati ad apprendere questa speciale cultura. “Fare il pane” ha avuto grande successo quasi ci fosse una fame più profonda da soddisfare: recuperare un legame vero con la vita materiale, con noi stessi, col mondo che ci circonda.

La pedagogia potrebbe ripartire dal “pane di Alessandro” che, tra l’altro, oggi studia all’Università del Gusto di Pollenzo e che sta investendo una parte importante della sua vita in questo progetto.

LA PEDAGOGIA E LA SCUOLA ATTIVA

Ora vorrei fare con voi una sorta di rapido viaggio nella storia della pedagogia per comprendere come siamo arrivati fin qui e che cosa è vivo ed operante nelle nostre pratiche e concezioni educative relative al tema del convegno.
Parto da una idea: la pedagogia può essere considerata come una teoria e prassi del cambiamento. D’altra parte in educazione si parla di evoluzione, crescita, apprendimento e se ne parla anche quando parliamo di de-crescita, di disapprendere stereotipi, ecc.
L’educazione è un processo complesso dove la pedagogia ha una sua specifica funzione, ovvero quella di elaborare, rappresentare e organizzare obiettivi, strumenti, metodi e forme di valutazione dei dispositivi di apprendimento che implicano azioni fondamentali quali: comunicare, socializzare, il prendersi cura di qualcosa, di qualcuno, il pensare e l’agire.

La pedagogia si è organizzata attraverso varie esperienze e correnti. Ne vorrei ricordare rapidamente tre, riprendendo un vecchio libro di Duccio Demetrio “Educatori di professione”.
1) La pedagogia nella sua dimensione terapeutica
2) La pedagogia come dimensione cooperativistica
3) La pedagogia nella sua dimensione attivistica.

Tutte e tre, sia pure nella loro diversità, attribuiscono un ruolo centrale al sistema “mente- corpo- relazione” . Tutte e tre pensano che l’agire sia fondamentale per rendere vive, concreta, strutturata la realtà dell’educare che, come detto, è volta al cambiamento.
Per la dimensione terapeutica lo scopo dell’azione educativa è quella di rimuovere gli ostacoli che impediscono il benessere, l’equilibrio di una persona. Il tema è l’inserimento sociale, l’adattamento, l’ascolto dei bisogni in un’azione ancorata al mondo della quotidianità.
Per la dimensione cooperativistica, il gruppo è il target del cambiamento. Lo scopo è modificare i comportamenti individuali sperimentando situazioni di gruppo e modificare l’azione del gruppo attraverso l’apporto dei singoli. Progetto, comunità di lavoro, gruppo sono le parole chiave di questa corrente.
Infine, la dimensione attivistica propone una metodologia volta a rendere l’individuo protagonista “volontario, attivo e cosciente del proprio processo formativo”.
Attività, libertà, autoeducazione sono i presupposti dell’agire educativo. Mente, corpo e relazioni si sviluppano nel contatto diretto con la realtà.

RITRATTI DI ANTENATI

L’espressione è tratta sempre dal libro di Demetrio (1991). Fare questo viaggio potrà essere molto utile.
Partiamo da Jean Jacques Rousseau (1717 – 1778). Per Rousseau la migliore educazione ci viene dalla natura, dalla nostra capacità/possibilità di aderire alla natura che è in noi, a sviluppare una conoscenza che ci liberi da ogni forma di oppressione grazie al libero apprendimento, alla relazione sperimentale con l’ambiente.

Johan Heinrich Pestalozzi (1746 – 1827) metteva la centro della sua azione e ricerca il tema della “vita domestica”. L’elevazione dell’umanità, e lui si occupava di bambini poveri, di giovani delinquenti, di ragazzi emarginati, passa attraverso il lavoro manuale. La crescita è impossibile senza “moralità e conoscenza” visto che attività mentale e fisica sono in stretta relazione. Pestalozzi parla di “educare il cuore” vivendo insieme la vita domestica. La centralità della comunità educativa trova un suo strumento proprio nella vita pratica.

Frederich Froebel (1782-1852) è l’inventore dei kindergarten. Per lui è fondamentale il gioco ed il giocare. Il suo approccio è quindi diverso da quello del seminario operoso di Pestalozzi: il gioco, il piacere è la novità di Froebel; l’attività educativa e conoscitiva come esercizio ludico.
La mente non lavora solo per conoscere, la mente si esprime in modo diverso e non solo in forma logico-matematica (per certi aspetti egli anticipa “le intelligenze multiple” di Howard Gardner). Nelle scuole di Froebel c’è spazio per la musica, il canto, la pitture, le arti plastiche, il disegno come forme di conoscenza e realizzazione estetica di sé.

Maria Montessori (1870 – 1957) fa in modo che “la vita domestica” ed il “giardino” possano convivere nelle sue Case dei Bambini. In più fa entrare in azione l’osservazione e l’analisi delle differenze. Per Montessori occorre creare le condizioni per l’espressione di ciascuno attivando processi psichici e relazionali utile per l’agire. La Montessori applica un metodo scientifico, dove il controllo è importante e dove l’interdisciplinarietà si collega alla progettazione delle sequenze educative. La vita materiale, la quotidianità e la capacità del bambino di risolvere dei problemi concreti sta al centro della sua sperimentazione. Anche per la Montessori la manualità è fondamentale per rivelare processi psichici e mentali.

William Kilpatrick (1871-1965) mette al centro del suo lavoro pedagogico la nozione di “progetto”. Il punto di partenza è comunque una specifica concezione della mente: per Kilpatrick la mente si sviluppa mediante ricostruzioni e rifacimenti degli impulsi e dei desideri. Il controllo dell’esperienza è decisivo ed è realizzato attraverso l’osservazione e la memoria. La mente ha il potere dell’autocontrollo, della rilettura dell’esperienza: il feedback è il cuore di questo processo. Ma ovviamente occorre aver vissuto qualcosa di concreto, non è solo un processo mentale astratto. Il pensiero, dice Kilpatrick, sorge da una difficoltà da superare e per apprendere qualcosa di significativo ci vuole una motivazione, un interesse e magari anche un gruppo ed un progetto.
Per Kilpatrick la pianificazione di un progetto conferisce un senso all’azione, ma senza intenzionalità senza il piacere di essere in gioco, che è ciò che mobilita le forse reali dell’individuo non c’è nulla. Forse non stiamo parlando di “manualità”, ma sicuramente si sta pensando alla necessità di restare saldamente ancorati alla concretezza dell’agire che implica ancora un legame con la materia, con l’idea di un individuo che fa qualcosa e non solo che immagina qualcosa…

E veniamo a John Dewey (1859-1952). Dire qualcosa in poche battute su un pensatore e pedagogista così importante è molto difficile, quasi una eresia. Diciamo comunque che al centro della sua riflessione vi è la nozione di esperienza. Per Dewey l’uomo costruire il suo pensiero nel rapporto con la natura, col mondo. “Intendiamo per esperienza – dice Dewey – un punto di accesso alla spiegazione del mondo in cui viviamo”. L’esperienza è la fonte della conoscenza, ma non tutte le azioni dell’uomo sono esperienza. L’agire è una vera esperienza (che produce conoscenza) se c’è l’intelligenza creativa, capace di controllare ciò che è avvenuto: sia sul piano logico che su quello soggettivo dell’immaginazione, dei simboli, ma a che politico (la democrazia come processo reale, opera continua di educazione). Per Dewey l’esperienza è dunque intreccio di azione, riflessione, progetto e controllo. La sua teoria dell’indagine scientifica richiede comunque la necessità di essere pratici, concreti ponendosi obiettivi misurabili. Egli criticava l’intellettualismo astratto e pensava che fosse utile sviluppare conoscenza attraverso le esperienze concrete capaci di farci stabilire delle connessioni tra i fenomeni. Anche per Dewey che era appunto “pragmatista” era fondamentale costruire dei progetti ma soprattutto produrre oggetti e situazioni concrete che fossero la testimonianza reale di quel processo, poi vi doveva essere spazio per la ricostruzione dell’esperienza, per la narrazione, la memoria anche emotiva del vissuto.

Per Eduard Claparede (1873-1940) l’attività del bambino è sempre suscitata da un bisogno per soddisfare il quale è disposto a mobilitare le sue energie. Ciò comporta per gli adulti, educatori ed insegnanti, l’obbligo di mettere l’allievo nella situazione di risvegliare degli interesse, dei bisogni e consentirgli così di apprendere quelle conoscenze adatte a soddisfarlo. Il sapere è al servizio dell’azione: qui si parla di educazione funzionale dove l’effettuazione, l’espressione e la produzione di oggetti reali è essenziale. Non basta il metodo, occorre saper fare qualcosa ed aver piacere di apprendere quel saper fare…In tale senso il fare, l’agire sono ancora determinanti e per nulla posti in secondo piano.

Celestin Freinet (1896-1966) addirittura, con la sua pedagogia popolare, mette da parte i testi e le teorie pre-costituite ed elabora delle tecniche pedagogiche concrete. Freinet introduce l’uso del testo libero, del calcolo vivente, della tipografia scolastica che ancora oggi sono utilizzate a scuola e che hanno prodotto grandi innovazioni metodologiche e didattiche.
Freinet è convinto che vada salvaguardata la libertà d’espressione del bambino. L’espressione di sé va poi comunicata, messa in rete diremmo oggi. Però occorre partire da sé, dai propri problemi concreti. Vi è in questo atteggiamento non una volontà semplicemente introspettiva, ma un’apertura alla realtà, alla scoperta dell’esterno sviluppando osservazioni, progetti, azioni nell’ambiente, scambi sociali, ecc. Freinet introduce con chiarezza i concetti di complessità e di multisciplinarietà parlando si apprendimento multiforme, della necessità di creare collegamenti tra le discipline, di sviluppare lo sperimentalismo, di procedere per tentativi e di favorire la cooperazione educativa. Tutte situazioni in cui l’individuo tutto intero è chiamato ad esprimersi, in cui la manualità è viva e parte integrante del processo educativo.

Paulo Freire (1921-1997), pedagogista brasiliano, è famoso il suo “La pedagogia degli oppressi” (1971) e “L’educazione come pratica della libertà” (1973).
Freire dà grande dignità al tema della “pedagogia del dialogo” ovvero alla capacità di fra domande, di interrogare se stessi e la realtà. La curiosità è fondamentale, ma la cosa importante è anche partire da ciò che già si sa. L’insegnante non deve solo insegnare, ma anche imparare e capire ciò l’allievo già conosce e partire da lì. Il compito dell’educazione è coscientizzare, rendere l’altro consapevole del proprio saper, delle proprie capacità di apprendere ancora. Se pensiamo che Freire parlava ai contadini si può capire l’impatto sociale della sua pedagogia. Apprendere significa saper riformulare il proprio sapere in contesti diversi: così s’impara qualcosa di novo. Gli psicologi potrebbero parlare di autostima come base del processo cognitivo. Noi ci limitiamo a dire che il sapere pratico non va escluso, anzi è la base per altri saperi e che la teoria sempre alla pratica deve ritornare.
Nel 1996 Freire scrisse “Pedagogia dell’autonomia” e sottolineò come “formare è molto di più che addestrare l’educando all’uso di alcune abilità”. Insegnare non è solo trasferire conoscenze, ma creare le possibilità per produrne di nuove. La scuola sarebbe proprio il luogo dell’elaborazione critica del sapere e della relazione tra un potere (l’insegnante) ed un contropotere (l’allievo) per andare oltre i condizionamenti precostituiti. Compresi quelli della separazione tra manualità e intelletto.

Facciamo un salto e andiamo a toccare dei “pedagogisti” alternativi.
Marcello Bernardi (1922 – 2001), che era un pediatra, insegnava che l’educazione è quell’insieme di nozioni, atteggiamenti, comportamenti che aiutano l’individuo a essere se stesso, a realizzare pienamente la propria personalità, a progredire secondo le proprie linee evolutive. Bernardi riprendeva un altro pediatra, Sebastien Faure (1858 – 1942) che sosteneva che il “ruolo dell’educazione è portare al massimo sviluppo tutte le facoltà del bambino: fisiche, intellettuali, morali” Il dovere dell’educazione è di favorire la piena fioritura di questo insieme di energie e attitudini che si trovano in ciascuno
Danilo Dolci (1924 – 1997) personaggio che ha combattuto la mafia in Sicilia negli anni del dopoguerra, figura di maestro ed intellettuale politico di grande rilevanza, sosteneva la centralità della “motivazione”, dell’esigenza di radicare il sapere non un’astratta trasmissione di contenuti e nozioni, ma nel contesto di una comunicazione e relazione più ampia che comprendesse la vita pratica, le cose concrete della vita.
Lamberto Borghi (1907-2000) grande pedagogista e docente universitario molto vicino ai movimenti educativi del dopoguerra, considerava l’educazione alla libertà come una forma della coltivazione della libertà di pensiero legata però alla prassi reale, alla libertà di agire e di praticare il dubbio, l’indagine concreta. Borghi aveva introdotto il concetto di “attesa dubitativa” e dello sviluppo della conoscenza attraverso tentativi, prove, ipotesi, esperimenti, aperti alla ricerca, magari al fallimento, per nulla garantiti dall’errore, dalla perdita, dalla dispersione.

Tutti questi autori ci ricordano così la posizione centrale del fare, dell’agire in educazione.
E ci introducono alla modernità che privilegia i processi legati all’incertezza, alla complessità che non esclude, anzi rivaluta, il fare all’interno della teoria pedagogica.

Edgar Morin (1921) ci ha insegnato che l’educazione deve mostrare che non esiste conoscenza che non sia minacciata dall’errore e dall’illusione. Occorre sempre verificare le fonti ed essere aperti all’inatteso, all’incertezza. Poi ci ha spiegato e convinto dell’importanza dell’organizzazione delle conoscenze, della relazione fondamentale col contesto, della multidimensionalità del sapere e delle intelligenze. Ci ha quindi ricordato che siamo prima tutto carne, cittadini reali di questa terra reale, che ci sono culture diverse sia pure nell’unità della specie umana. Tutte questioni terribilmente pratiche.

Come funzioni oggi, concretamente, la relazione mano-mente nella scuola è difficile dirlo.
Indubbiamente noi siamo ancora fermi ad una situazione in cui tutto ciò che è “intellettuale” viene considerato superiore a ciò che è pratico, manuale.
Quel che ho cercato di chiarire nel mio ragionamento precedente, sostenuto da riferimenti pedagogici storico-concettuali, è che la “manualità” deve essere intesa come un concetto più ampio dentro al quale accogliere processi formativi anche di natura intellettuale. La nozione di progetto, di ricerca, la sperimentazione, la comunicazione, la relazione con l’ambiente e l’esperienza, il lavoro di gruppo sono tutti temi che rinviano alla necessità di rivalutare in termini di contenuti e di metodi la dimensione della “mano” che fa parte di un corpo, che a sua volta è lo strumento che usiamo per vivere…

In un recente articolo, pubblicato sulla rivista Ecole parlo, a proposito della scuola, dello svanire del corpo nella formazione e nella scuola. E’ come se la scuola andasse, mano a mano che passa il tempo, verso forme di intellettualismo sempre crescente in cui lo spazio per i laboratori, ad esempio, diminuisce sino a scomparire. E ciò comporta predite enormi, anche per il sapere intellettuale. Ad esempio, io faccio molti laboratori di poesia nella scuola media. I ragazzi fanno poesia con me, non si limitano a studiare le poesie degli altri… E così si avvicinano meglio alla grande poesia. Non diventeranno poeti, ma qualcuno di loro avrà più voglia e qualche competenza in più nel leggere i poeti.

Io sono contrario ad ogni forma di tecnicismo, che è in fondo l’altra faccia dell’intellettualismo. Il tecnicismo serve per l’impiegabilità funzionale ai sistemi dominanti.
Io credo conti più la capacità globale di apprendere che comporta la sfida della competenza, che deve essere profonda, vera, completa, globale.
Il fatto è che siamo schiavi del mercato del lavoro che ha le sue ragioni e le sue esigenze, ma che non può essere l’unico riferimento per la formazione dei bambini e dei ragazzi.
Nella manualità c’è molta intelligenza, cha va riconosciuta e coltivata. Il fatto è che lo stesso mercato del lavoro oggi richiede competenze multiple, capacità di lavoro in team, di progettazione, di autonomia che integri diversi skills. In questa prospettiva, la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale ha la funzione di selezionare socialmente le persone in base ad un criterio di classe. Questo non lo dobbiamo dimenticare.
E non dobbiamo dimentica che secondo delle recenti ricerche i nostri adulti sono agli ultimi posti nel mondo nella comprensione di un testo e nella capacità di calcolo. C’è qualcosa che non va nel nostro sistema di formazione. Eppure passiamo per un popolo “creativo”.

L’excursus sui “nostri antenati” ci dovrebbe far capire anche che il falegname, il tecnico di un laboratorio, un direttore d’orchestra sono in realtà tutti degli artigiani perché in primo luogo a loro sta a cuore “il lavoro ben fatto per se stesso”. Questo lo sostiene ad esempio Richard Sennet in “L’uomo artigiano” (Feltrinelli).
Ai livelli più alti, la tecnica non è mai un’attività meccanica, ma una volta che si è imparato a svolgere bene un’attività, le persone intelligenti sono in grado di capire a fondo, con il sentimento e col pensiero, quello che stanno facendo.
Lo sviluppo delle competenze, delle abilità tecniche deriva e dipende da come è strutturata e vissuta la ripetizione.
Mano a mano che sviluppiamo un’abilità, il contenuto di ciò che viene ripetuto cambia e cambia anche il nostro modo di sentirci, di vivere quei momenti. E’ la relazione rinnovata ed aperta tra soluzione e individuazione dei problemi che costruisce ed espande le abilità.
Renzo Piano racconta che il suo metodo di lavoro tiene conto della manualità e della concretezza: “prima fai uno schizzo, poi un disegno, poi costruisci un modello quindi vai alla realtà, vai sul cantiere e poi torni al disegno. Costruiamo così una circolarità: dal disegno al fare e ritorno”. Pensare e fare insieme.
Fare un buon lavoro significa coltivare la curiosità e la motivazione a migliorare. Curiosità per ciò che non è chiaro, che è ambiguo, che sta su una zona di confine, quella appunto tra la risoluzione e l’individuazione dei problemi.

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