ln occasione del centenario della nascita di Cecrope Barilli, che per alcuni è stato il “maestro”, ma per tutti è il poliedrico intellettuale, poeta, artista, educatore, attivo nell’MCC e fondatore dei Cemea che tanto ha saputo costruire e trasmettere.

RICORDO DI CECROPE BARILLI

Oggi i Cemea sono una Federazione con sedi in tutta Italia, contano 10 Centri e molti più gruppi locali, hanno sviluppato un percorso condiviso, dialogano con le Università, con gli enti locali, con la rete internazionale. Pur rimanendo minoritari (perché laicità e attivismo lo sono, in Italia) vengono riconosciuti per la loro metodologia e hanno imparato a scrivere (Cecrope non lo faceva) e a pubblicare.

Oggi però ricordiamo CECROPE, per me scherzosamente il Capo e umanamente una guida concreta.
Cosa rimane oggi della sua impostazione, dopo 26 anni dalla morte, che lo colse ancora attivo, seppure triste e provato per la morte di Vera, carissima amica e allieva prediletta? Quel “tutto il tempo è tempo educativo”; il cartello “il poeta lavora” attaccato all’amaca dove dormiva; il suo rigore sul senso delle parole.
Perché tutti noi, ragazzi entusiasti e inesperti, con Cecrope abbiamo scoperto che la congruenza tra mezzi e fini non può prescindere da quella tra significanti e significati. Non erano enunciazioni le sue, ma rigorose quanto piacevoli disamine dei termini utilizzati e delle loro conseguenze.
Ci invitava ad un’attenzione duratura, che includeva riflessione e curiosità: se con le parole fondiamo il mondo, con le parole sbagliate non possiamo che affondarlo.
Ben prima del grido morettiano (chi parla male, pensa male, vive male!) Cecrope ci condusse, “per curve e labirinti”, a cercare il nesso tra le parole e la vita.

Posso dire che il nostro gruppo, quello che lo ha seguito nei suoi ultimi  10 anni, si è formato col gesto ampio dell’accoglienza e lo sguardo puntuto della meticolosità.

Ancora ho in mente la frase con cui chiude l’intervista alla Rai, che cito a memoria: “la parola del bambino, le unghie dei piedi del bambino, la nostra attenzione è identica, sarà il bambino che dirà cosa gli è più importante, il bambino, non noi”.
Trovo che in questa concretezza ci sia tutta la sua laicità e tutto il grande messaggio di fiducia e di rispetto che il movimento Cemea è impegnato a testimoniare nelle proprie attività.

Laicità in quel passo indietro rispetto al destino del bambino, che è e deve rimanere suo. Il tratto maieutico è evidente, ma la nostra era una nascita sociale e così invece del parto abbiamo il porto: nell’uscita sociale dell’essere umano noi ci occupiamo di far salpare la nave, ben calafatata, equipaggiata al meglio, con le provviste, l’acqua e il sale (come non ricordarsi nelle carovane kayak l’immancabile interrogativo “Chi ha il sale?” e gli altrettanto immancabili pranzi insipidi!).
Ma la rotta non siamo noi a stabilirla. Non è il nostro mestiere, nostra è la fiducia che ciascuna persona, messa nelle condizioni di poter scegliere, sappia distinguere ciò che le è più consono, e che governare una comunità di liberi sia più semplice che cercare di farli diventare uguali.

Ecco, quello siamo stati, piccola comunità che ha nutrito un senso comune e lo ha mantenuto desto.
Oggi sentiamo parlare molto del riscatto delle piccole comunità, della necessità di ritirarsi nel “poco” del senso condiviso per poterlo riconoscere, incarnare, espandere. Vediamo la ricchezza e la molteplicità di chi anima orti urbani, piuttosto che ciclo officine, chi riscopre l’artigianato, chi scambia, chi stampa, chi ricicla, chi ricomincia a cucinare insieme.
D’altra parte, quando la maionese “impazzisce” (ma questa è un’esperienza negata a tutte le ultime generazioni) l’unica cosa è cambiare bicchiere e ricominciare con una piccola quantità, quasi a riprendere il filo di un discorso interrotto.

E questa responsabilità era esplicita nel suo messaggio e ci consegna, perché il senso è ancora tutto lì, questo “penultimo” compito, quello di resistere alla tirannia del prodotto, quello di indulgere nella costruzione di un processo, che, come per i flauti di bambù (in cui la musica cresce insieme alla tua capacità di maneggiare lo strumento che stai costruendo), sia pensato “alla misura di”: bambino, giovane, genitore, adulto, anziano.
E proporre processi necessita di attori, di persone che si mettano in gioco, alla prova, che allarghino la propria sfera di azione, respirino a pieni polmoni, si espongano all’ulteriore.

Chi gliene dà il coraggio, in un’epoca così feroce nell’attribuire patenti di fallito o incapace?
Cecrope, che di giudizi ne aveva per tutti, ci ha educato e trasmesso il dono di “sospenderli”, sapendo che sospendere il giudizio non è arte da ignavi, non è menefreghismo, insipienza, opportunismo.
E’ rispetto per la fatica dell’altro, che non deve essere distolto nell’atto delicatissimo di aprire le sue ali, mentre, rotta la crisalide, si sta involando in farfalla.
E di fronte a questa crucialità dell’essere, che sempre si trova nell’atto del divenire, di fronte a questa turgidità, delicata e innamorante, Cecrope ha trasmesso ai Cemea la capacità di assistere, senza il bisogno rapace di impadronirsi, senza la necessità burocratica di etichettare.

Penultimo compito dicevo, perché l’ultimo lo ritroviamo in quello sberleffo del poeta addormentato che avverte “il poeta lavora” per non essere disturbato. Quel sonno, che non è assenza, ci ricorda qualcosa di fondamentale: che l’attività, come l’ingegno è multiforme, che a differenza del lavoro non si fa alienare, che è fatta di pause e riflessioni, che passa per la cura del ritmo delle persone (il risveglio libero in colonia di vacanza, che invenzione!), e che l’attivismo non è catena di montaggio, perché, per dirla con i francesi: “celui qui s’agite n’agis pas!”

Claudio Tosi

21 Aprile 2013

 

 

INTERVENTO SU BARILLI – IL PROFILO DEL MAESTRO

Mi spiace non poter essere con voi oggi a Roma a ricordare Cecrope.

Lui per me, come per tanti di noi, ha avuto una grande importanza. Non solo per quello che ha rappresentato per la storia dei Cemea, ma per la formazione e la storia personale di molti di noi.
Perché Cecrope, con il suo fare riflessivo ma deciso, la sua curiosità da flaneur, la sua capacità di costruire legami, aveva davvero il profilo del Maestro.

Per lui occuparsi di educazione significava non separare mai il piacere dalla conoscenza, cercare nel particolare la coerenza dell’universale stabilire delle connessioni tra le diverse sfere della cultura.
Da lui ho imparato che per fare l’educatore occorre coltivare la musica, la poesia, l’arte, la letteratura come aspetti della prassi educativa . Ho imparato che solo ampliando gli orizzonti della nostra esistenza possiamo costruire qualcosa di nuovo. Senza una visione più ampia non c’è educazione. E lui l’aveva.

Lui ha scritto poco rispetto alla quantità di pensieri, azioni, esperienze che ha vissuto e prodotto, Era un maestro dell’oralità, un maestro antico. Ma è con lui che ho scoperto che fare stages sulla scrittura, il parlare in pubblico, la lettura era fondamentale; che ho scoperto che “la musica si fa” imparando a fare un flauto di bambu’; che fare educazione è una ricerca artigianale ed infinita di piccole cose e grandi pensieri ed anche di piccoli pensieri che aspirano a grandi cose…

Cecrope era seduttivo perché era capace a valorizzare le persone attorno a lui. Certo lui era il Centro di tutto. Un Narciso sui generis: talmente Narciso da non poter fare a meno degli altri. E così noi lo seguivamo, lo aspettavamo e lo ascoltavamo: perché era capace di motivare le persone a tirare fuori da sé il proprio meglio. Era esigente, talvolta rigido, con le sue regole, ma sapeva cogliere le qualità dei suoi interlocutori e ti faceva sentire importante. Perché tutti sono importanti e le intelligenze vanno protette e mai gettate via. Così, credo, lui la pensava.

Io non ho mai vissuto la quotidianità di una relazione con lui. Io non vivevo a Roma in quelle case-ufficio di Via della Luce o di via Del Grande dove vita associativa e privata si mescolavano. Forse questo intreccio era una forza, forse una debolezza. Di errori ne facciamo tanti e lui sicuramente ne ha fatti. Ma non era sordo alle novità.
Quando nel 1980 siamo andati a Roma accompagnati da Leon Jadeau per presentargli i nuovi Cemea del Piemonte, lui ha subito capito che c’erano delle energie positive da sviluppare e che la nostra voglia di fare e di lavorare era vera, sincera. Anche se uscivamo dai canoni classici dei Cemea di allora. Noi volevamo fare dei Cemea il nostro lavoro non un semplice passatempo, sia pure nobile ed innovativo. E lui non ci ostacolò mai, anzi ci diede sempre una mano.

Cecrope aveva anche capito, lui di cultura socialista e liberale, lui europeista convinto da sempre che l’attività internazionale, gli scambi con le altre culture erano e sono un fattore essenziale di sviluppo. Lui sapeva bene che le idee dei Cemea sono prima tutto quelle di un grande movimento internazionale. Per anni Cecrope ha rappresentato i Cemea Italiani alla FICEMEA e quando nel 1993 sono io entrato nel Bureau della FICEMEA a rappresentare la FIT, ho sentito, e sento ancora oggi che continuo quel lavoro, l’onore e l’onere di tenere alto il rispetto e la considerazione che Cecrope aveva presso i nostri partner internazionali.

Riprendere oggi il suo pensiero ed il suo contributo potrebbe essere molto importate, dati i tempi duri della crisi che stiamo attraversando: per ritrovare i valori personali e sociali, culturali e politici nel senso più alto, che possono orientare certamente i Cemea, ma tutti coloro che hanno a cuore il futuro.
Concludo con le parole di Cecrope:

Come mi rassomiglia la mia vita.
La parola che spiando nello specchio
chiedevo invano al mio volto,
l’ho trovata facile e piana,
vivendo.
La vita cui ora fraternamente mi appoggio
ogni giorno, ogni ora mi conduce
per curve e labirinti,
immagine dipanata
dell’oscuro groviglio
che io sono.

Un abbraccio

Stefano Vitale